ISAIA – L’eccellenza come affinità elettiva
Il rispetto per la tradizione, l’amore per la ricerca, la …
Andrea Cavrini si occupa da numerosi anni di formazione. E’ stato Direttore Generale di Alma Graduate School, la business school dell’Università di Bologna, presso la quale dirige attualmente l’Execuitve MBA, il programma di punta della Scuola rivolto a manager e imprenditori.
E’ sommelier non professionista, dopo aver frequentato i corsi organizzati dall’Associazione Sommellier Italiani. E’ da anni appassionato di cucina e favoleggia di realizzare un proprio ristorante. Gli piace scrivere a tempo perso.
DA GENNARO
TORRE DEL SARACINO, MARINA D’AEQUA
8- 11 SETTEMBRE 2010
di ANDREA CAVRINI
Naturalmente, per il rinfresco della reunion, la grande festa annuale degli ex studenti della scuola, era stato chiamato Gennaro. Beh, chissà se si ricorda, ne avevamo parlato più di un anno fa. Vieni quando vuoi, mi aveva detto subito.
E’ che lì per lì non mi ero deciso, poi al rientro c’era il lavoro che premeva e dopo per altre vicende non me l’ero più sentita. Lo vedo; mi viene incontro; in cucina stanno ancora aspettando, mi dice subito a mo’ di saluto. Guarda che questa volta vengo davvero, replico immediatamente.
Quando vuoi, ribadisce. Starei tre giorni … tutto il tempo che vuoi, mi fa. Decisamente la volta buona.
Mercoledì, 8 settembre
Autostrada: il tempo è coperto, alcuni scrosci di pioggia lungo il cammino. Arrivo a Marina d’Aequa; mi sistemo nell’albergo che Gennaro mi ha consigliato; chiedo le indicazioni per il ristorante. E’ qui a cento metri, mi dice alla reception una signora con un buffo miscuglio di accento straniero e inflessione napoletana. Meglio così: Google Maps me lo dava nell’entroterra, quasi sul crinale che separa il versante di Sorrento dalla costiera Amalfitana. Passo da un’estremità all’altra di Marina d’Aequa; ecco la torre da cui prende nome il ristorante! Guardo con invidia la buganvillea posta di fianco all’ingresso; ci avevamo provato alcuni anni prima, ma latitudine, clima e aria erano troppo diversi. Già, qui siamo sul golfo di Napoli!
Gennaro mi accoglie in sala, dove sta parlando con alcune persone; mi dice di andarmi a cambiare e di presentarmi in cucina da Beppe.
Faccio in tempo a cogliere con la coda dell’occhio la piacevole eleganza degli spazi e corro ad eseguire l’ordine di Gennaro: mi sono fatto fare una giacca da chef con tanto di nome ricamato sul bordo del taschino in alto a sinistra. Realizzo immediatamente che nessuno, nemmeno Gennaro, porta una giacca personalizzata: che figura, proprio l’ultimo arrivato! Faccio il giro della cucina e mi presento a tutti: sono davvero tanti, almeno una decina. Mi affido a Beppe. Parla piano; sta preparando un succo di pomodoro di tre qualità diverse per uno “stuzzichino”. Poi comincia con grande energia a pestare in un mortaio olive, aglio, pinoli e una montagna di prezzemolo. Assisto, pensando che dopo poco abbia finito: macché, prosegue senza sosta con la stessa lena. Così mi allontano e vado a scambiare qualche parola con Salvatore, il capo dei secondi, che sta preparando piccole pagnottine di pane da infornare. Con la coda dell’occhio di tanto in tanto controllo Beppe: continua a pestare nel mortaio come un ossesso. Chissà a che cosa servirà quel pesto: tanto lavoro merita un posto in prima fila. E’ passata quasi un’ora, ma continua imperterrito. Mi riavvicino; ma non è già abbastanza cremoso?, gli chiedo. Sì, mi dice, anche per lo chef andrebbe già bene così, però
delle volte resta qualche piccolo filamento che potrebbe dar fastidio in bocca e allora vado avanti un altro po’. Pazzesco. Credo si tratti dell’amor proprio tipico di chi è arrivato da poco: in effetti Beppe sembra davvero giovane. Da
quanto tempo lavori qui, gli faccio; otto mesi, mi risponde. Ecco, avevo ragione, penso. Ma subito aggiunge: però prima ho fatto un anno a Piacenza, all’Antica Osteria del Teatro. Poi, dopo un attimo di silenzio, dice quasi scusandosi che è stato due anni da Pinchiorri. E ancora prima, conclude, sono stato un anno e mezzo a New York, subito dopo aver finito l’alberghiero. Così, riassumo, sei andato a lavorare a diciassette anni e mezzo. Beh, veramente, mi dice, ho incominciato che ne avevo tredici, in una pizzeria ristorante qui vicino. Riprende a pestare nel mortaio: non è ancora soddisfatto del risultato. E guardandolo, mi accorgo di aver sempre creduto che l’umiltà fosse essenzialmente un attributo dell’apprendere:
invece c’è un’umiltà anche nel fare, che, se interpretato con amore, non è mai solo un eseguire. Avrei dovuto immaginarmelo che non si sarebbe trattato solo di un viaggio di piacere. Gli ospiti di Gennaro non vedranno mai il pesto di Beppe. Si pone alla base di un bicchierino che viene colmato con il succo di pomodoro fatto in precedenza.
Solo il cucchiaino posto di fianco suggerisce una celata presenza. Lo assaggio; è buonissimo.
Gironzolo con la macchina fotografica. Non so dove stare: rischio sempre di essere in mezzo. Già, qui tutti sono indaffarati fin dalle nove di mattina. E’ che non ci capisco nulla. Ognuno svolge il proprio compito con sicurezza e autonomia, ma non si può inferire il tutto da qualche piccola parte: è come cercare di capire la figura di un puzzle prendendo dieci tessere a caso. Guardo il menu, ma il collegamento con quanto svolto dai singoli mi sfugge quasi sempre. A che cosa serve quel soffritto di porri? Il sugo di pomodoro che ci sta a fare senza pasta?
E quegli spicchi di limone sotto una montagna di sale e di spezie?
Chiedo asilo a Lorenzo, che di tutti sembra il più imperturbabile. Viene da Ravenna ed è stato anche lui in un altro ristorante famoso. Alla Torre del Saracino sta facendo uno stage nel settore antipasti, sotto la responsabilità di Fumiko. Con gesto lento toglie alcuni triangolini di pasta fresca dall’acqua bollente e li dispone su una griglia perché si raffreddino in fretta. Mi spiega che servono per realizzare una lasagnetta di pesce rudo. Interrogo inutilmente la pagina degli antipasti attaccata alla parete; è inutile che guardi, dice Lorenzo, lì non c’è, è un preantipasto.
Una cosa però incomincio a capirla: qui cuociono in fretta, raffreddano subito e mettono da parte. Ovunque ci sono bacinelle di acqua e ghiaccio: i cibi -le verdure ma anche alcuni pesci- passano dalla padella, dalla pentola o a volte addirittura dalla fiamma alla bacinella ghiacciata. E per le cose che non possono andare nell’acqua, come la pasta sfoglia, c’è l’abbattitore: una sorta di frigorifero con un turboventilatore che abbassa rapidamente la temperatura di tutto ciò che ci si mette dentro. Il fatto è che qui è tutto completamente diverso: strumenti, tecnologie, tecniche di cottura. E anche le materie prime, che in molti casi non si trovano facilmente da altre parti.
Sento il problema di che cosa fare. E’ ben chiaro, ad esempio, che non si può andare dai ragazzi a chiedere la ricetta, che so, di un antipasto sfizioso. A parte il fatto che non so se la capirei e se la saprei eseguire successivamente, si tratterebbe comunque di una scorciatoia indebita, che marcherebbe ancora di più la distanza fra me, curioso dilettante, e loro, maestri artigiani.
Come dice Gennaro, dovrei capire prima le tecniche di base, che pare non siano nemmeno tante; poi, il resto, dice lui, non è difficile. Sarà; ma nel frattempo mi pesa questa distanza: sono vestito come loro ma non faccio nulla; l’accoglienza partenopea è dolce ed enorme come lo straordinario babà che qui preparano, ma vorrei sentirmi un po’ di più parte del gruppo. Arriva ora di cena. Mangio
con lo staff di cucina: dico a tutti quanti che non ho fatto niente ma sono stanco più di loro; ci credo, sbotta Gennaro. Il ristorante non è nemmeno pieno, ma l’atmosfera non è rilassata come prima di pranzo: sono tutti indaffarati e mi sento davvero di troppo. Vado a dormire presto. Non piove più, ma c’è molta umidità; il Vesuvio, che sarebbe giusto di fronte a me, è coperto da nuvole basse.
Giovedì, 9 settembre
Il tempo sembra un po’ migliore, ma il vulcano ancora non si vede. Alle nove gli stagisti stanno già tutti lavorando, anche Beppe. Gli arrivi sono in funzione della gerarchia: Salvatore e Fumiko arrivano più tardi; Gennaro si presenta per ultimo. Già, Gennaro. Quasi non si vede e quando c’è è abbastanza silenzioso. Non il comportamento tipico di un capo, almeno apparentemente. Però quando i cuochi mi parlano delle ricette, di ciò che fanno, una delle prime parole è “chef”. Lui interviene solo per eccezione, quando c’è un piatto particolare da preparare; per il resto si fa sentire solo quando vede disordine o il brusio va oltre una determinata soglia. Introdotti gli standard, formati i cuochi, definito il menu, tiene soprattutto ad assicurare le condizioni ambientali migliori affinché ciascuno faccia la propria parte. Se non c’è pressione scherza, preferibilmente con Salvatore o con Flavia, che sta ai dessert. Sono entrambi autodidatti, vengono dall’Università. A dire il vero Salvatore lavora con Gennaro da molti anni, come mi dice Vittoria, compagna di Gennaro, che viene da una famiglia di ristoratori e si occupa dell’amministrazione. Autodidatti, poi: Salvatore mi fa una lezione sulla panificazione parlando di molecole, reti glucidiche e altre cose che non riesco nemmeno ad afferrare.
Flavia invece faceva giurisprudenza, ma nel frattempo aveva preso a coltivare una irrefrenabile passione per la cucina. “Incontravo Gennaro per strada -mi racconta – e non avevo nemmeno il coraggio di salutarlo. Poi ci conosciamo, sa che mi interesso di cucina e viene a mangiare a casa mia a condizione che prepari da sola un pasto completo. Si complimenta ma la cosa sembra finire lì. Un bel giorno mi decido: vorrei lasciare gli studi e dedicarmi alla cucina: devo scegliere una scuola prestigiosa e vado da Gennaro per chiedere consiglio. Per me puoi venire a lavorare nel ristorante domattina, mi risponde. Ecco come sono arrivata qui”. L’emozione vibra ancora a tal punto nel racconto che l’avverto io stesso su di me.
Flavia lavora con Sara in un’ala della cucina: ghetto, lo chiama lei, ma in realtà è fiera della propria identità professionale. Perché la preparazione dei dolci segue regole assai rigide, a cominciare dai dosaggi, che sono tenuti sotto controllo con la bilancia elettronica. E poi ci vogliono mani piccole e sicure, precisione, calma, cura della presentazione, come nell’abbinamento dei colori nella mousse di cocco con dadini di ananas e mirtilli: è solo un predessert, di quelli che non si trovano sul menu, ma la combinazione cromatica e di forme è talmente bella nella sua semplicità che verrebbe da mangiarlo solo con gli occhi per non rovinarlo.
Nei dessert, ma anche in tanti altri piatti, i limoni la fanno da padrone. Chiedo a Flavia se posso fotografare “La passeggiata Vicana”, uno dei dessert della carta e forse il più rappresentativo della cucina di Gennaro. E’ in un bicchiere: alla base una panna cotta al limone, sopra una gelatina, un biscotto sbriciolato, una mousse più leggera. Per finire poche gocce di olio di oliva, una mezza noce, due foglie di mirto.
Fatta la fotografia, Flavia mi offre un cucchiaino: è per te, mi dice. Beh, non volevo, rispondo, ma non mi faccio pregare due volte: so di ripetermi, ma è buonissimo.
Più in là Davide pulisce per terra. E’ il fratello mite di Gennaro: mi dà del voi, del lei o del tu a seconda del tipo di situazione nella quale ci troviamo a parlare. Vorrei passarlo io, quello straccio: si sa che si parte dalle mansioni più semplici. Finché non faccio qualcosa non mi sento parte del gruppo.
Un’altra lezione di umiltà: Davide ha già girato le cucine di mezzo mondo, ma passa senza difficoltà dalla preparazione di un elaborato piatto di pesce alla pulitura del pavimento della cucina.
Il turno del pranzo è ormai finito e me ne torno in albergo. Mi riposo un po’, poi raggiungo la spiaggia libera. Il tempo è sempre grigio, anche se non piove; l’acqua, scura, rispecchia il cielo. Vado verso il largo. Non c’è nessuno, né sulla riva, né in acqua. E’ una sensazione strana, di pace e di forza. Me lo aveva detto Gennaro, di andare a fare il bagno. Lui misura le parole, ma se mi dà un’indicazione non è mai a caso. Torno a riva: ha ripreso un po’ a piovere, ma la temperatura dell’acqua corrisponde a quella dell’aria; si sta davvero benissimo.
Alle sei sono di nuovo in cucina: continuo a non far niente però mi non mi sento più un pesce fuor d’acqua. Mangio di gusto dei semplici e ineguagliabili spaghetti al pomodoro: ne hanno preparato una dozzina di piatti per lo staff, ma non tutti i cuochi li prendono. Sarà la nuotata, ma ho una fame pazzesca e non resisto: me ne faccio un altro piatto. Fantastici. Scambio anche una lunga occhiata agli ultimi spaghetti rimasti: con rammarico mi astengo.
Per la sera alcune prenotazioni sono state disdette; Gennaro se la prende un po’, dato che alla mattina si era fatta la spesa in funzione delle presenze attese. Già, perché qui è tutto freschissimo: alla mattina presto, all’ingresso sul retro ogni tanto si avvicinano alcuni pescatori; chiedono di Gennaro o di Salvatore; sommessamente propongono in una lingua loro una ricciola appena pescata.
Fuori, nuvole basse, umidità, pioggia a tratti. Il golfo si diverte a recitare la parte della pianura padana in inverno.
Venerdì, 10 settembre
Arrivo un po’ prima, così posso fare qualche chiacchiera in più con l’onnipresente Beppe. Però voglio non voglio più stare con le mani in mano: vedo Davide che pulisce delle acciughe; mi aggiungo e mi metto anch’io a pulire. Davide, pazientemente, mi spiega come fare: i primi risultati sono veramente orribili, ma dopo prendo la mano. Il punto è che per ogni acciuga che pulisco lui ne ha già fatte almeno due. Ecco un’altra differenza: la velocità di esecuzione. Finché si è alla mattina presto non fa una gran differenza, ma quando c’è la sala piena diventa decisivo: correre, correre, correre, senza perdere attenzione per il dettaglio. Già, perché i piatti pronti vengono depositati sul grande piano di appoggio illuminato posto all’estremità della cucina: i cuochi guardano con cura ogni preparazione, fanno gli ultimi ritocchi, si fermano un attimo a rimirare l’opera mentre il cameriere attende un impercettibile segno di assenso per portare il piatto in sala.
Sarà per affinità regionale, ma passo sempre un po’ di tempo con Lorenzo, che mi spiega con pazienza le cose strane nelle quali lo vedo intento. Però questa volta, preparando il pranzo per lo staff, fa qualcosa di assai familiare: la piadina! In effetti cuochi la mangiano con gusto: siamo in uno dei più grandi ristoranti italiani e ‘sti diavoli di romagnoli si mettono a fare la piadina neanche fossero in un chiosco sulla Romea. Salvatore, responsabile dei secondi ma anche gran maestro del pane e dei grissini, tollera bonariamente l’intrusione.
Improvvisamente, Fumiko decide di adottarmi e mi mette al lavoro. Fumiko parla un italiano buffo, molto semplice. Lavora con Gennaro da quattro anni e sta con Salvatore. Già, qui resta poco tempo libero per fare incontri o anche per praticare un hobby: Sara mi spiega che teoricamente ci sarebbe la domenica pomeriggio; però dopo il pranzo il ristorante chiude fino a martedì e ci sono le grandi pulizie; si finisce un po’ tardi, si è stanchi e spesso si torna a casa.
Sia come sia, gli antipasti sono davvero straordinari. Fumiko nei giorni precedenti me li ha fatti assaggiare tutti: fra gli altri, la zuppa di tarallo di Acerola con conserva di pomodoro e varietà di pesce azzurro; i ravioli di pesce spada con salsa di alici, pomodori secchi e origano; la minestra di zucchine con gamberoni rossi e uovo affogato. Fumiko è velocissima, ma negli antipasti occorre anche grande manualità: sono piatti piccoli ma assai elaborati, le composizioni devono avere equilibrio cromatico, etc.. Già, per gli antipasti è un po’ come nei dessert: forse non è un caso che ad occuparsene siano proprio due ragazze.
Fatto sta che devo preparare la purea di melanzane che accompagna le cozze ripiene: cuocio, frullo, setaccio, insomma mi metto finalmente a lavorare. Gennaro apprezza: mi mette una mano sulla spalla, come a dire sei finalmente dei nostri.
Dalla sala arriva la richiesta di un primo con l’aragosta: Gennaro cucina dei paccheri e li mette in un piatto particolare.
Poco più in là Flavia scherza con Salvatore: la pasticceria è una scienza esatta, non come la panetteria, nella quale Salvatore va ad occhio: chissà dove sta la maggior professionalità. Fatto sta che Flavia non si fida della prova visiva: versando il primo strato della Passeggiata Vicana utilizza la bilancia elettronica per essere sicura di mettere esattamente la stessa quantità. In ciascun bicchiere.
Nel frattempo Salvatore mi impartisce una seconda lezione sulla panificazione; usa il lievito madre, però mi spiega come fare il pane a casa con pochissimo lievito di birra: bisogna impastare metà della semola con tutta l’acqua e un briciolo di lievito la sera prima; lasciar riposare il tutto in una terrina; la mattina dopo aggiungere l’altra metà della farina alla pasta lievitata. Così il pane ha un sapore migliore e, indizio di qualità, dura più a lungo.
Poi si dedica alla preparazione di un secondo: pulisce le triglie, aggiunge un filetto di gambero e un trito di pane grattugiato, olive ed erbe aromatiche. Come vuole Gennaro, tutto si svolge con estremo ordine.
Col tempo non c’è proprio niente da fare. Il Vesuvio è sempre coperto da nuvole basse. Però oggi mi sono proprio divertito.
Sabato, 11 settembre
E’ l’ultimo giorno. Sbircio fuori appena sveglio: il cielo è ancora coperto. Però, prima di lasciare la stanza mi affaccio nuovamente: c’è un fantastico arcobaleno, che va a da un estremo all’altro del golfo di Napoli! Più tardi la signora polacca che mi aveva ricevuto all’arrivo mi dirà che, da vent’anni a Sorrento, non aveva mai visto una cosa così.
Ora il tempo volge decisamente al bello: il Vesuvio mi appare in tutta la sua imponenza; il sole fa capolino fra le nuvole spazzate dal vento; il golfo si illumina dei propri colori. Non so chi ha scritto che, avendo pazienza, presto o tardi lo spirito del luogo viene a farti visita. Beh, ci contavo: e che di questo si tratti non ho più dubbi, dopo aver visto quell’arcobaleno.
Ultima sessione in cucina. Fumiko mi dà ancora fiducia e mi fa preparare una torta salata con ricotta, mozzarella e zucchine per il pranzo dello staff.
E’ divertente perché per questo piatto bisogna fare varie attività diverse: tagliare e cuocere le zucchine; setacciare la ricotta e impastarla con la mozzarella e un rosso d’uovo; tirare la pasta sfoglia con il mattarello; metterla subito nell’abbattitore; versare il composto; completare il tutto con qualche strisciolina di pasta sfoglia avanzata; cuocere rapidamente in forno. Mangiamo la torta salata con lo staff prima del turno di pranzo. Chiacchiero ancora un po’ con Gennaro; faccio le ultime foto. Raccolgo le mie cose, tolgo la giubba. Provo una sensazione di incompiutezza: avevo appena incominciato e ci stavo davvero prendendo gusto… però è proprio tempo di tornare.
Gennaro, Vittoria, tutto lo staff: grazie, non dimenticherò.
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